Crowdfunding? Funziona se…

Negli ultimi anni si è scritto e parlato molto di crowdfunding in Italia.

Ne avevamo parlato anche noi spiegandone  gli aspetti contabili e fiscali.

Per riprendere il filo del discorso, qui diciamo solo che è una forma di micro-finanziamento collettivo, una modalità di raccolta fondi che si svolge (principalmente) online.

Chi cerca finanziamenti per un’iniziativa privata, un progetto di beneficenza/utilità sociale o un’impresa (spesso una StartUp), può:

  • selezionare una delle circa 80 apposite piattaforme web attualmente esistenti nel nostro Paese (ma è possibile farlo anche in modalità fai da te);
  • caricarvi il progetto e l’appello a sostenerlo.

Da subito si troverà immerso nell’enorme platea degli utenti web che potrebbero decidere di donare/investire/prestare denaro, anche con piccole quote.

 

I vari tipi di crowdfunding

Esistono vari tipi di crowdfunding:

  • reward based (a fronte di donazioni in denaro è prevista una “ricompensa” di vario tipo, simbolica come un ringraziamento pubblico, o materiale come ad esempio il prodotto per il quale si sta effettuando il finanziamento);
  • donation based (utilizzato soprattutto dalle organizzazioni non profit);
  • lending based (non è prevista donazione, bensì microprestiti a persone o imprese);
  • equity based (modello regolamentato dalla CONSOB: in cambio dell’importo versato, il finanziatore diventa a tutti gli effetti “socio-azionista” dell’impresa);
  • ibride (basate su più modalità di finanziamento).

In Italia questo insieme di strumenti integrati per la raccolta fondi è stato spesso invocato come una sorta di panacea per tutti i problemi, specie da parte del mondo non profit.

Nonostante questo, il Terzo Settore non sempre ne ha compreso da un lato la portata rivoluzionaria (atteggiamento disfattista) e dall’altro l’importanza di tre fattori chiave per la sua riuscita (atteggiamento eccessivamente ottimista o “facilone”).

 

Il fattore tecnologico

Il crowdfunding si svolge principalmente online e funziona se:

  • parla la “lingua del web”;
  • usa sapientemente gli strumenti digitali tra cui video, immagini, ma anche link;
  • si basa sulla scelta delle piattaforme giuste (non tutte vano bene per tutte le tipologie di progetto, non tutte sono sufficientemente affidabili o sufficientemente “visibili”);
  • si integra ad un sito istituzionale dell’ente che sia attivo, trasparente, responsivo e che abbia una landing page efficace per la campagna/il progetto per cui si chiedono donazioni;
  • usa sapientemente i social media (Facebook, Instagram, Twitter, ma anche Linkedin, Whatsapp, ecc.).

Se un ente non profit vuole cimentarsi in una esperienza di crowdfunding deve prima chiedersi se quanto sopra menzionato faccia effettivamente già parte della normale attività istituzionale o se prima non serva un “salto nella digitalizzazione e nel web”.

 

Il fattore antropologico

Il livello di sfiducia, o peggio di timore, degli italiani nei confronti degli acquisiti e delle attività sul web è ancora elevato e il passaggio all’online non avverrà nel giro di pochi anni.

Pertanto, basare una campagna di raccolta fondi soltanto sulle donazioni online potrebbe rivelarsi un atteggiamento un po’ troppo incauto, specie se la propria comunità di riferimento (dai membri del Direttivo ai volontari e simpatizzanti) è composta da soggetti poco o affatto inclini all’uso del web o della tecnologia.

In parole povere, non avrebbe senso:

  • mandare una DEM a chi non possiede neanche una casella di posta elettronica;
  • coinvolgere su Facebook qualcuno che non vi sia iscritto;
  • chiedere una donazione online a chi non usa la carta di credito o non conosce PayPal.

Non è infatti un caso che alcune campagne di crowdfunding non profit di successo si siano spesso avvalse anche di modalità di dono tradizionali, come la possibilità di versare le quote di donazione in contanti, presso uno sportello apposito o in occasione di eventi legati alla campagna stessa, come quello di lancio o kick-off o l’evento finale di chiusura, oppure tramite versamento su c/c postale.

 

Il fattore culturale o fattore “FR”

L’ultimo e senza dubbio il fattore più importante per una buona riuscita del crowdfunding.

Per capire cosa sia basta rispondere alle seguenti domande: “La mia organizzazione non profit è permeata di cultura del fundraising? Investe nella raccolta fondi? Approva, diffonde ed è testimone della cultura del dono? È in grado di comunicare all’esterno la propria buona causa, veicolando messaggi diversi in base ai pubblici? Conosce la propria comunità di riferimento, la propria rete di relazioni ed è riuscita a mapparla?”.

In sostanza: prima di cimentarci nel crowdfunding siamo sicuri che l’organizzazione stia effettivamente implementando la raccolta fondi in modo sistematico, continuativo ed efficace?

Perché il crowdfunding è semplicemente raccolta fondi, quindi le componenti fondamentali per il suo esito positivo sono quelle tipiche della raccolta fondi:

  • chiarezza di obiettivi di lungo e breve periodo;
  • programmazione e allocazione del budget;
  • analisi e cura delle relazioni;
  • trasparenza (rendicontazione);
  • reputazione e fiducia;
  • scelta degli strumenti;
  • comunicazione chiara, efficace, agile, sia online sia offline.

In definitiva: la capacità di gestire una cosiddetta campagna integrata di raccolta, che preveda cioè l’utilizzo di più strumenti ed attinge a più mercati/target, contemporaneamente.

 

In conclusione

Il crowdfunding funziona, nella stessa misura in cui la raccolta fondi funziona. Ma occorre:

  • investirvi tempo, passione, risorse umane (volontarie e/o personale dipendente);
  • essere in grado di gestirne le complessità tecnologiche;
  • essere consapevoli del proprio effettivo potere di coinvolgimento della comunità o della nicchia alla quale si sta per rivolgere la richiesta di sostegno.

Volendo riassumere tutti questi concetti in uno slogan direi: crowdfunding sì, ma prima relazioni, comunità, comunicazione, fiducia e web.

Livia Accorroni

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